La storia (non) dimenticata di Piazza della Vittoria e del villaggio degli Sfrattati.

Francesco Florenzano
6 min readJul 13, 2016

--

Ricordo il giorno in cui scoprii questa storia accaduta a due passi da casa mia, ma in altri tempi e atmosfere. Ricordo che avevo davanti una carta topografica della Brescia del 1958 e che notai una serie di costruzioni in serie, simili a palazzine di una caserma, non lontane dalle calchere di Ponte Crotte.

La storia potrebbe cominciare così.

E’ il 1927 quando viene indetto, dall’amministrazione podestarile dell’epoca, un concorso nazionale per la stesura di un nuovo piano regolatore della città, piano che potesse portare quel risanamento che da tempo veniva invocato soprattutto per i quartieri popolari della Contrada del Carmine e delle Pescherie, in pieno centro storico.
Il risultato del concorso ebbe solo carattere di indirizzo. L’amministrazione decise di non utilizzare il progetto vincitore ma di affidare il lavoro a Marcello Piacentini, archistar dell’epoca e certa espressione della politica propagandistica del regime volta alla caratterizzazione fascista delle città italiane.

Il progetto portò alla stesura del nuovo piano regolatore della città e a concentrare gli sforzi urbanistici soprattutto sulla realizzazione di una nuova piazza, contemporanea agorà, e di un nuovo assetto viario nord- sud est-ovest, a riprendere il modello romano di città.
La piazza sarebbe sorta al posto del Quartiere delle Pescherie, a risolvere i supposti problemi di igiene e ordine pubblico che affliggevano il rione. Il progetto venne approvato.

La demolizione dell’intero quartiere, iniziata nella tarda primavera del 1929, continuò fino all’agosto del 1930.

Dal proclama del potestà cittadino di allora, Pietro Calzoni:

“Bisogna accelerare lavoro abbattimento centro città e far capire a tutti che su tale programma non è possibile nessun arresto. Interessati provvedano a sistemarsi subito”.

Gli interessati erano i quasi 2.400 abitanti del quartiere che, senza possibilità di replica, furono costretti a lasciare le loro case. 760 famiglie.

Piazza della Vittoria fu infine inaugurata nel 1932 (video).

Il disegno della nuova piazza e del nuovo assetto viario (quest’ultimo non realizzato).

Inizialmente le famiglie più povere furono collocate in provvisori e fatiscenti villaggi di baracche nelle zone di Porta Cremona e Campo Marte, periferie della città di allora. Successivamente si mossero le opere pie. Tra tutte, la locale Conferenza di San Vincenzo che costruì, insieme al comune, i primi edifici del futuro quartiere San Vincenzo.

Il quartiere, costruito ad hoc, era semplicemente un gruppo di 13 padiglioni ognuno suddiviso in 20 stanze di circa 25 mq ciascuna, con una porta d’ingresso, una finestra e terra battuta come pavimento. Ogni stanza era assegnata ad una famiglia, tranne le eccezioni in cui a famiglie numerose (con più di 7 componenti) ne venivano assegnate due.

Il Popolo di Brescia, il 6 aprile del 1932, ebbe a descriverlo come un quartiere caratteristico della città.

Il sobborgo, recintato e quindi separato dal resto della città non solo dalla discontinuità del costruito e dal fiume Mella, aveva un custode che sovrintendeva all’erogazione della corrente elettrica, sospesa dopo le 23, e alla chiusura notturna dei cancelli.

Subito dopo il completamento del villaggio, avvenuto nella tarda primavera del 1933, vi abitavano 250 famiglie per 1.300 persone circa, con a disposizione 260 stanze-alloggio.

La prima parte del Quartiere San Vincenzo, primi anni Trenta. Al centro la chiesa.

Il periodo della guerra, estremamente duro per tutta la popolazione cittadina, lo fu particolarmente all’interno del villaggio, dove le già precarie condizioni continuarono a peggiorare.
La caserma “Achille Papa”, subito al di là di Ponte Crotte, fu quasi unica possibilità di sostentamento per gli abitanti del villaggio, costretti a chiedere un pasto ai suoi cancelli. Ma fu anche fonte di preoccupazione, soprattutto durante la presenza tedesca.

Finita la guerra, nel 1946 il villaggio vide l’arrivo di Don Giacomo Vender.
Nato a Lovere (BG) il 9 aprile 1909, fu inizialmente curato nella parrocchia di San Faustino a Brescia.
Cappellano militare, convinto antifascista e parte della Resistenza nelle file delle Fiamme Verdi, fu la figura paterna che accompagnò all’emancipazione la popolazione del Quartiere San Vincenzo.

Don Vender (a destra) con i signori Carnevali e Bresciani, abitanti del villaggio degli Sfrattati.

(…) Il quartiere, detto degli sfrattati, è composto di 240 famiglie — un complesso di 1.450 persone — sbattute sul greto del Mella in 262 stanze. Tra uomini e donne capaci e volonterosi di lavoro i disoccupati si assommano a 200 circa. Le loro condizioni gridano vendetta al cospetto di Dio. Urgono attenzioni soprattutto per i fanciulli e le fanciulle in numero (da uno a quattordici anni) di circa 450.

Questo un estratto da una lettera di Don Giacomo Vender del 1950, indirizzata all’allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Giulio Andreotti.

Ma oltre a richieste di tipo assistenziale, Don Vender si impegnò per tutti gli anni ’50 in iniziative volte a ridare dignità di uomini a queste persone, attraverso un percorso di riabilitazione anche sociale costituito dai temi del lavoro e della casa (pessima era la reputazione degli Sfrattati in città).
Di fronte all’impossibilità di ottenere dalle istituzioni pubbliche le abitazioni che avrebbero potuto togliere i suoi fedeli da una situazione di estremo degrado, nel 1951 Don Vender costituì la prima delle cooperative che sarebbero andate ad animare la vita del quartiere: la “Cooperativa edile Quartiere Sfrattati” aveva come principale finalità quella di costruire abitazioni per gli stessi abitanti del villaggio.
Tra la fine degli anni ’50 e l’inizio dei ’60 furono diversi gli interventi che la cooperativa portò avanti, non senza difficoltà di ordine prevalentemente economico.

La “Cooperativa corale di San Vincenzo” venne costituita nel 1952.
Benché lo scopo statutario inizialmente sottoscritto fosse la compravendita di generi alimentari con l’intento di rivederli a prezzi calmierati, il vero obiettivo della cooperativa era quello di occupare i ragazzi del quartiere che trovavano grandi difficoltà nel farsi assumere dalle officine della città, a causa della cattiva fama che si portavano dietro. Lo stesso Don Vender confidò che tale cooperativa nacque in una situazione emergenziale, come ultimo tentativo d’uscita per il vivere e l’avvenire di giovani esasperati.
Paradigma delle difficoltà affrontate fu la travagliata vita dell’officina di carpenteria metallica avviata sotto la cooperativa “Corale di San Vincenzo”. All’apertura, avvenuta nel 1956, essa occupava due operai, ma il repentino incremento della mole di lavoro richiese spazi più ampi. Nel 1961 il laboratorio venne trasferito quindi in uno spazio più grande e arrivò ad impiegare fino ad una decina di persone. Ma solo un anno più tardi, forse a causa dell’ampliamento azzardato, dovette chiudere per i debiti accumulati. La crisi di questa attività coinvolse a tale punto Don Vender che, come racconta un testimone, faceva i salti mortali (…), arrivava in sagrestia certe sere con una cera da infarto, una barba da galeotto.

Tra le attività educative portate avanti da Don Vender all’interno del villaggio, una delle più importanti fu l’insegnamento della musica e del canto a bambini e adulti. L’attività impegnava un centinaio di persone.
Il coro di voci bianche arrivò al sesto posto ad un concorso nazionale indetto dalla RAI, nel 1954.
Quello degli adulti tenne numerosi concerti lungo tutti gli anni Cinquanta e Sessanta, in città e provincia, alternando musica sacra e profana, brani operistici e musica vocale rinascimentale.
La scarsità delle risorse finanziarie colpiva anche questa attività, in quanto i fondi erano assorbiti dai costi delle trasferte e, soprattutto, dalle spese sostenute per i diritti d’autore.
Minimi erano i margini di ricavo, a dispetto della volontà di utilizzare tale iniziativa per finanziarne delle altre, quali vacanze estive per i bambini o acquisto di materiale di cancelleria.
Prima di tutto, però, il coro aveva come finalità principale quella educativa. In un’altra lettera scritta a Giulio Andreotti, nella quale il sacerdote richiedeva un aiuto finanziario per la sua iniziativa, Don Vender scrisse:

(…) E’ sempre più difficile ricavare quel minimo di utile che mi serve per continuare le opere del mio quartiere. In considerazione di quanto esposto, in considerazione che (…) solo con la Corale riesco a mantenere almeno la gioventù lontano dai pericoli della vita di disagi, in cui vive la popolazione del quartiere, mi permetto di chiedere alla S. V. Ill. ma il contributo di almeno un milione onde poter continuare la mia opera (…)

Il coro e le cooperative erano, oltre a iniziative che davano lavoro e sostentamento, un modo per unire le persone, elevarle spiritualmente e moralmente, metterle in contatto con quell’ambiente esterno al villaggio che spesso si rivelava, con un fondo di ragione, ostile ai suoi abitanti.

Sign up to discover human stories that deepen your understanding of the world.

Free

Distraction-free reading. No ads.

Organize your knowledge with lists and highlights.

Tell your story. Find your audience.

Membership

Read member-only stories

Support writers you read most

Earn money for your writing

Listen to audio narrations

Read offline with the Medium app

--

--

No responses yet

Write a response